È un’immagine del primo Novecento. Lei è Rosa, non testimonia alcunché. Avrebbe potuto farlo per il sapone da bucato, pezzi grossi, parallelepipedi giallastri o candidi a seconda della liscivia, cenere di legno bollita per una laboriosa messinscena della purezza. Mi toccava: Rosa era “mia mamma” e una mano bisognava darle, mattino prestissimo di un giorno di sole per poi stendere tutto ai fili di corda, veli stupendi a sipario di un prato lungo e largo, verde verdissimo, qualche chiazza rustica come un dipinto dell’Ottocento.
Un giorno Rosa decise che il bucato si rimandava perché c’erano parenti “d’andare a trovare”. Non mi alzai alle quattro e fui puntuale alla campana della Prima Elementare all’oratorio. Non seppi mai della visita ai parenti: era tempo di rigoroso rispetto verso padre e madre, dei loro silenzi, del loro verso, delle faccende. Ma ho saputo in questi giorni di ricordi, da che parenti era andata Madre Rosa: un fotografo, uno dei primi che aveva l’arte della posa, da fare invidia, certo, ai geni che ora beccano un centinaio per un volto da idratante color pastello. E lui che si chiamava Ernesto e veniva a volte a trovarci mentre Rosa faceva la sfoglia e la chiacchiera era più vera, realizzò questa meraviglia, panni cuciti di notte a candela segreta, ombrellino di posa fornito da Ernesto. Che non sapeva, che non sapevamo, che scopro in questi giorni d’ansia da trasloco, nella scatola delle foto gialle. Scopro la Madre, la Mamma, stupenda Millennial di una vita. Cresciuta ai bagliori del sole, tra lenzuola candide di bucato.