Vero: ho sempre tessuto elogi sin dalla prima edizione. Lungo la Croisette, tra palme a sembianze natalizie mi sembrò che il tempo aggredisse il calendario. Un ottobre fine anno, un ottobre con il Natale, il corso dei grandi alberghi si compiaceva del lusso ad alta caratura e i luccichii, gli odori, l’altezzoso sguardo di espositori in nero da festa, ti accendevano il desiderio di esserci per starci.
Un’altra Cannes: non quella captata di passaggio su una riviera che giocava di stravagante, eccitante, benessere secondo dettami Saint Tropez. Insomma: il grande, il meraviglioso. Poi, quasi a seguire il lento, impercettibile cammino dell’evoluzione, anzi della rivoluzione, non si fece più festa nelle barche di chi ce l’aveva a maggior lusso e amicizie; oppure un pranzetto ai ristorantoni dell’abbondanza sulla Croisette, l’uno accovacciato all’altro, il pesce migliore, lo champagne fluente. La rivoluzione fece mediocrità, certo; e innalzò quasi a inevitabile contrappasso i temi di una Conference che predicava, al nobile Palais, il passato incerto e il futuro da ragionare. E Cannes diventò questa Cannes, questa del dopo oltraggio covidiano dove nell’Auditorium si suppone d’ogni; e sempre un po’ meno di flaconi profumati. Le barche al molo chic, osannate più per spuntini a Dom Perignon che a contratti eclatanti, avevano cambiato il loro modus. Meglio l’attracco al Palais, più sicuro, più business. E adesso s’alzano il canto e i “lai” della ripresa. Quanti oratori anche fuori dall’Auditorium, ne sanno e inevitabilmente la fanno lunga. Vado. Vado allora a un piatto servito sul tovagliolo di carta gialla dei miei amici di Parma, giovani in gamba, ristorantino fuori dal caos ma dentro un menù di qualità e simpatia.
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